04 Set

Diversa sono io.

Ho scritto questo racconto e l’ho presentato “fuori concorso” alla prima edizione di Diverso Sarò Io. Sarà perché era fuori concorso, sarà perché ce n’erano di molto più a tema, sarà che non si tratta di un racconto con tutte le carte in regola… beh, se lo sono filati in pochi. Io ne sono stata ben felice perché si tratta di una storia vera e già esporlo alla lettura nel forum di Pescepirata è stato difficile.

Vabbè, domenica a Mantova premiamo i primi classificati della seconda edizione. Cosa ne dite, è ora di pubblicarlo?

Premiazione seconda edizione

Diverso Sarò Io

Libreria IBS, Via Verdi 50

Domenica 7 settembre ore 16.00

Ok, ok, questo è il racconto.

Diversa sono io

 

Anch’io ho danzato in girotondo.

(Milan Kundera, Il libro del riso e dell’oblio).

Era primavera inoltrata quando scoprii di essere rimasta, a un tratto, sola.

Ero al bar, come al solito, con le amiche, si chiacchierava, si passava la serata. Non era stato così negli ultimi dieci anni, in fondo?

C’erano stati dei contrasti, è vero. Parole non dette, malignità alle spalle. Un clima teso negli ultimi tempi. Niente che non si sarebbe potuto risolvere con una serata a vedere una videocassetta a casa mia e poi fino alle due a parlare di tutto. Perché ti sono amica e, anche se non la pensi come me, non importa, ti voglio un bene che queste cose le supera. Non è così che ci eravamo sempre dette?

Non ci eravamo professate sorelle? Non avevamo chiuso il cerchio e lasciato fuori tutti gli altri? Sì, l’avevamo fatto. Noi, ineccepibili, egocentriche, spavalde. Uguali.

Tre amiche del cuore e il resto se ne stia alla larga, perché non c’è niente che non spartirei con queste, che chiamo sorelle.

Poi qualcosa non si era potuto più spartire.

Ho un ricordo confuso, doloroso, di ciò che in quei giorni mi accadeva al lavoro. C’è una parola sola per definirlo e solo a distanza di tempo posso dirlo con certezza. Mobbing.

Un mobbing pesante perpetrato da alcuni colleghi, fatto di continui richiami, insinuazioni, accuse, emarginazione.

Lavorare è importante, mi dicevo. Mi dà dignità e indipendenza. Eppure perdevo sicurezza di giorno in giorno. Mi stavano ammazzando sul piano professionale, riducendo a una nullità, solo in grado di compiangersi non appena fuori dall’ufficio.

La gente mi ha sempre detto che il mio sguardo è triste. Mi immagino allora, mogia e in disparte, mentre combattevo una battaglia surreale contro colleghi tutti uguali tra di loro e differenti solo da me.

Le amiche non conoscevano ciò che stavo vivendo al lavoro. O meglio, non c’erano parole con le quali riuscissi a spiegarlo, io stessa non comprendevo.

Sei solo capace di lamentarti.

Loro, intanto, avevano problemi grandi e veri, problemi come la morte di persone care. Le mie difficoltà lavorative al confronto erano sconvenienti e capricciose macchie nere.

Scoprirono una chiesa. Una di quelle in cui entri per disperazione e dalla quale, forse, non esci più. Iniziarono a frequentarla, prima ogni domenica, poi ogni giorno. Vi incontravano illuminati che dicevano loro chi incontrare, chi amare, chi stimare.

Io non capivo. Chiedevo, ribattevo.

Sei solo capace di fare polemica.

E non sei giusta, quindi da eliminare, cacciare.

Questa è una storia vera. Le parole che mi dissero furono molto meno chiare, ma furono chiari gli atti, in seguito, che mi fecero comprendere l’ineluttabilità di certe decisioni.

Ero fuori.

Ero sola.

Perfettamente inserita in società: meno di trent’anni, Laurea, Master, un lavoro remunerativo. Buona famiglia. Bella presenza, aveva scritto sulla mia scheda un esaminatore durante un colloquio di lavoro. Vestiti eleganti e accessori firmati. Guadagnavo e me li potevo permettere.

Quell’estate, per la prima volta nella mia vita, presi un aereo da sola.

Andavo a Londra, una città grigia del nord Europa che non aveva mai nemmeno sfiorato i miei desideri, ma non poteva essere di certo più grigia della mia vita. Andavo a studiare l’inglese, alla faccia di quegli individui che volevano scalzarmi da un posto di lavoro in cui l’inglese era di importanza vitale.

È una storia vera nella quale, dopo tre giorni passati in una metropoli immensa, mi rinchiusi in camera e pensai che la mia esistenza, così, non avesse più senso. Potevo tornare a casa? Stare al gioco dei miei colleghi, andare alla messa con le amiche, essere condiscendente?

No.

Dopo che hai pianto devi avere due occhi tristissimi e di sicuro sei schivo, inadatto alla compagnia. E c’era lo scoglio della lingua, molto più ostica di quanto avessi mai immaginato.

Nazareno, questo è il suo nome vero (e voglio dirlo), mi chiese il permesso di sedere sul divano dove stavo anch’io, nella squallida sala comune rossa del dormitorio in cui avevo preso alloggio.

È strano, avere tanto debito di riconoscenza nei confronti di qualcuno che è stato mio per lo spazio di quindici miseri giorni in una vita intera. E subito dopo è scomparso.

Come lo ricordo? Basso, capelli chiari, radi e spettinati, abbigliamento trascurato. Uno sguardo grande e celeste in grado di oscurare ogni difetto. Non ho nemmeno una sua foto.

Se credessi nell’esistenza degli angeli penserei che fosse uno di loro.

O forse ci credo, negli angeli: quelli che si accorgono quando hai pianto e ti chiedono il permesso di sedersi accanto a te. Quelli che ti domandano se sei sola e tu, per un istante, ma uno soltanto, ti poni il dubbio se dare loro la risposta esatta. Quelli che ti propongono di fare una cosa assieme. Una qualsiasi.

La qualsiasi cosa che facemmo fu camminare.

Con un estraneo, affidandomi a lui, ho passeggiato di notte sulla riva del Tamigi. Gli ho confidato di avere paura e in risposta ho ottenuto: dobbiamo essere forti.

Con un estraneo, affidandomi a lui, nel buio, siamo approdati a una darsena.

C’era un veliero.

Nella realtà è la riproduzione della Golden Hinde con cui Francis Drake circumnavigò il globo quasi cinquecento anni fa.

Nel mio cuore la Golden Hinde è l’inizio di un lungo viaggio che mi ha cambiata dentro.

I fatti sono beceri: sono tornata in Italia, ho trovato un nuovo lavoro, ho perso i contatti con le amiche del cuore.

Per molto tempo sono stata nulla. Una che si alza al mattino, lavora mangia dorme. Si alza ancora al mattino.

È una storia vera e un giorno, per caso, mi sono voltata indietro e mi sono scoperta fuori dal cerchio, per sempre.

Rimango agnostica. Rimango scrupolosa nella mia professione.

Non sono uguale a nessuno.

Non sono una maschera di successo, bella presenza, buon carattere, ottima dizione.

Dico al mondo chi sono e come sono.

Il mio viaggio, per ora, approda qui, nella scrittura. Nelle mie storie, nei miei racconti. Nei miei romanzi.

E un sogno si persegue, anche se è impossibile da realizzare.

È una storia vera, di quelle che non racconto mai, quindi non c’è lieto fine.

Solo una constatazione.

Diversa sono io. Si fottano gli uguali.

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